I recenti fatti di cronaca estera, dall'attentato di Kabul alla crisi del Kashmir e alle notizie che provengono dai centri di detenzione cinese, offrono purtroppo uno spunto di riflessione sul problema della libertà religiosa nel continente asiatico, sul quale LIREC tenta ormai da molto tempo di sensibilizzare le istituzioni e l'opinione pubblica. “Dopo la Cina e la Russia, ora ci occupiamo del Pakistan perché sono queste le ragioni per le quali queste persone scappano, chiedono asilo politico e diventano rifugiati in Europa”. Così aveva riassunto l'impegno del Centro studi la direttrice Raffaella Di Marzio all'agenzia DIRE a margine della conferenza stampa alla Camera “Donne appartenenti a minoranze religiose in Pakistan: diritti violati”. “Le linee guida emanate nel 2013 che il centro LIREC chiede d'implementare sollecitano l'Europa e anche l'Italia ad impegnarsi per combattere queste violazioni dei diritti umani”.
E' inevitabile però prendere atto che tale implementazione, a sei anni di distanza, non c'è mai stata. Anzi: l'Europa è perfettamente in linea con l'incremento globale del livello di restrizioni della libertà religiosa nel mondo. In altre parole, l'UE ha preso l'impegno di promuovere la tutela dei diritti umani di credenti, non credenti e atei dentro e fuori dai propri confini, ma le violazioni sono aumentate sia all'interno che all'esterno. Bisogna perciò inquadrare sia l'impegno di LIREC sia le stesse vicende asiatiche in questa prospettiva, quella cioè di una progressiva e generale perdita a livello mondiale della coscienza della necessità di difendere le persone da discriminazioni, violenze e persecuzioni fondate sulla loro appartenenza religiosa.
Se in Pakistan i timori dovuti al pericolo d'un conflitto nucleare con l'India si abbattono su una realtà di conversioni e matrimoni forzati, incendi ai luoghi di culto e assenza di pari opportunità sociali, in Cina sono oltre un milione, in prevalenza musulmani uiguri, i detenuti nei “centri di rieducazione” sottoposti a torture, abusi e sterilizzazioni forzate. Per comprendere quanto possa essere determinante il ruolo dei Paesi europei nell'ambito della diplomazia internazionale, bastano questi due esempi. Nel primo caso, abbiamo il precedente di Asia Bibi, in cui la pressione internazionale ha aperto la strada alla liberazione della donna cristiana. Nel secondo, apprendiamo che mentre i governi degli Stati UE stentano a comprendere la gravità della situazione dei rifugiati cinesi e a garantire loro protezione (quando non si limitano a rimpatriarli), ben 37 Paesi a maggioranza musulmana hanno firmato nei giorni scorsi una lettera a sostegno delle politiche di Pechino presso il Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite.
Il peso della comunità internazionale non dev'essere sottovalutato e bisogna considerare che quando i Paesi democratici tacciono di fronte alle violazioni dei diritti umani ce ne sono altri non democratici che le sostengono. La crisi del Myanmar è tutt'altro che risolta: i rohingya sono stipati nei campi profughi del Bangladesh in condizioni disumane e hanno rigettato ogni ipotesi di rimpatrio in assenza di certezze concrete sulla loro cittadinanza, mentre quelli rimasti nel Paese d'origine continuano a subire violenze. Ma bisogna rilevare come nell'arco di due anni si sia passati da un genocidio di massa a un'offerta di rimpatrio, che per quanto poco affidabile rappresenta l'esito di un percorso in cui il ruolo delle Nazioni Unite è stato a dir poco determinante, perché gli attivisti da soli non bastano: ci vuole il peso delle istituzioni, per fare la differenza.
Il nostro impegno di ogni giorno non ci porta in Asia in virtù d'un desiderio esotico o della nauseata ricerca estetica d'una retorica fondata su azioni meramente simboliche, bensì della radicata certezza che il nostro Parlamento e quello europeo possono cambiare la vita di migliaia di persone. E lo possono fare sia accogliendo i cittadini perseguitati per la loro fede nel Paese d'origine sia intervenendo con cognizione di causa sullo scenario internazionale. Per far questo, è necessaria però la coscienza, per le istituzioni come per l'opinione pubblica e quindi per tutti i cittadini, che per quanto questioni che si svolgono in continenti distanti possano apparire remote è possibile e doveroso fare, qui ed ora, la differenza.
Il nostro percorso accanto a comunità duramente perseguitate come quella Ahmadi ci ha rivelato come sia sufficiente dare voce a queste persone per trasmettere tale coscienza. Se oggi l'Europa, anziché regredire con l'approvazione di misure sempre più restrittive e discorsi che incitano all'odio sociale nei confronti delle minoranze, decidesse di attuare le linee-guida e ascoltare queste voci, sarebbe allora forse possibile invertire la minacciosa tendenza che vede la violenza sulla base dell'appartenenza religiosa in costante aumento in ogni parte del mondo.
Camillo Maffia